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martedì 8 dicembre 2020

Una birra "de finibus terrae"


In molti l'avrete sentita nominare almeno una volta e sicuramente non vi sarà sfuggita l'occasione per andare a fare un giro sul suo lungomare ed osservare l'orizzonte dall'alto del suo faro; parlo del luogo che è al sud del Salento, la bella cittadina di Santa Maria di Leuca. Famosa per le sue coste alte frastagliate dove si incontrano in un abbraccio amichevole i due mari che la bagnano, Jonio e Adriatico.

La natura delle sue coste la rende particolarmente ricca di strutture naturali meravigliose quali grotte (tra cui ricordiamo la grotta del Diavolo, quelle del Drago e grotta Porcinara) e insenature dove, specie in estate, una moltitudine di gente va a rinfrescarsi e magari pescare qualche buon riccio di mare da assaporare con gli amici sorseggiando una buona birra.

Vista aerea della Grotta Porcinara

Da secoli gli abitanti dei dintorni, e non solo, sono stati attratti da questi paesaggi incantevoli e a tratti incantati e, si sa, la fantasia popolare ha fatto nascere tante leggende per rendere ancora più magica la bellezza che la natura ci ha offerto. Una di queste leggende racconta infatti l'origine della cittadina di Leuca e di due delle punte più famose e ammirate anche ai nostri giorni. Scommetto che forse non la conoscete ed ora ve la racconto io.

I protagonisti di questa storia sono una sirena e due giovani innamorati. Si, lo so, vi ricorda l'inizio di altre leggende marittime ma alla fine tutto il mondo è paese. 

Allora, dicevamo... C'era una volta una sirena chiamata Leucasia il cui nome deriva dal termine greco che indica il bianco, nonchè la schiuma del mare; era molto bella, dalla pelle bianca e dalla spumeggiante chioma bionda (chissà quanto spendeva di crema solare); non è propriamente la tipica bellezza mediterranea che potremmo aspettarci ma probabilmente la madre era una turista tedesca.

Durante una delle sue nuotate mattutine notò un giovane pastore di nome Melisso che era sceso al mare per rinfrescarsi un po'.

La bianca schiuma che lambisce il Molo degli Inglesi

Melisso era un ragazzo solare, sempre allegro, salutava tutti ed era anche molto bello, ma così bello che Leucasia se ne invaghì perdutamente. Allora, per poterlo conquistare, iniziò a fare ciò che le sirene fanno in questi casi: intonare una melodia ammaliante per poterlo attirare a se. Questo canto però non sortì alcun effetto sul giovane poiché, per quanto possa essere bella una sirena almeno dall'ombelico in su, il giovane era già perdutamente innamorato di una fanciulla di nome Aristola. A Leucasia questa storia non scendeva proprio e allora iniziò a tormentarsi sempre più. Un giorno i due innamorati decisero di scendere in spiaggia per fare una passeggiata romantica; richiamata dalle risate dei giovani la sirena li vide ed invidiosa della loro felicità si arrabbiò facendo scatenare una violenta tempesta che li risucchiò nei flutti del mare annegandoli. E dato che Leucasia non era per nulla sadica e vendicativa, come ulteriore cattiveria, decise di separare i due corpi in due punti lontani della spiaggia in modo che non potessero mai più stare vicini.

Il fato volle che la dea Minerva era lì vicino a passeggiare tra gli ulivi a lei sacri e raccogliere qualche cicoria riesta da fare con le fave per pranzo quando, disturbata da questo trambusto, accorse a vedere la tristissima scena. Mossa a pietà verso i due giovani decise di donar loro l'immortalità tramutandoli in rocce che tutt'ora possiamo osservare: sono Punta Mèliso e Punta Ristola, una di fronte all'altra senza mai potersi toccare se non nell'abbraccio dell'insenatura che custodiscono. Si, lo so, poteva sforzarsi un poco di più la cara Minervina, ma ehi... Non le ho scritte io le leggende! 


Ah, dimenticavo Leucasia; la povera sirenetta oramai calmatasi dall'ira funesta, dopo essersi resa conto del terribile gesto appena compiuto, colta dal rimorso pregò la dea Minerva di tramutare anche lei in pietra e divenne così la più bianca delle rocce, per l'appunto Leuca. Infatti posiamo ammirare, ai piedi della cascata monumentale, una scultura della sirena che silenziosamente fa da guardiana al porto.

Ma tutto questo cosa ha a che fare con la birra? Beh, presto detto... Un bel giorno Mario e Tina mi hanno chiesto di realizzare per loro ed i loro amici una birra da poter gustare in riva al mare (sine, non è stagione, ma il mare d'inverno ha il suo perché, sta pure nelle canzoni) e, nello studio per l'etichetta, tra le varie bellissime foto della costa di Leuca che mi ha inviato, ho voluto scegliere questa che rappresenta una scultura in pietra leccese, tipica del nostro Salento, posta proprio su punta Ristola e dedicare quindi la mia birra alla giovane fanciulla di cui ancora non conoscevo la leggenda.

La scultura di Punta Ristola
La birra invece è, come per i due mari, l'incontro di due tradizioni brassicole che uniscono i malti del vecchio continente con i luppoli americani; questo crocevia di lingue e tradizioni che da sempre ha caratterizzato i porti del Salento lo possiamo ritrovare in questo prodotto in cui alle sensazioni agrumate e resinose dei luppoli fanno seguito i sentori di miele e di crosta di pane. All'aspetto si presenta con una schiuma bianca e compatta e con un colore dorato intenso con sfumature ambrate. 




mercoledì 4 novembre 2020

Fermentazioni di famiglia (IGA)

Finisce l'estate ed è tempo di vendemmia; ricordo quando ero piccolo e il nonno con lo zio erano in fermento per i preparativi. Si andava a raccogliere l'uva e una volta a casa la si deraspava e poi torchiava. Un processo che anno dopo anno si ripeteva solenne per ottenere il vino che avrebbe allietato i pranzi dei giorni successivi e lo spumante per irrorare le feste. 

Passarono gli anni ed ora che il nonno non c'è più, lo zio ha voluto ricominciare questa tradizione. Ha restaurato il vecchio torchio, lavato tutta l'attrezzatura e recuperato una mezza tonnellata di uve di negroamaro. Finalmente la vecchia cantina di casa è tornata ad ospitare il vino dopo che per un po' di anni le uniche fermentazioni in corso erano quelle delle mie birre.

Lo zio e mio padre intenti alla torchiatura
Il giorno della torchiatura ero presente anche io; al mattino avevo brassato una birretta e nel pomeriggio, dopo aver pulito tutto, mi sono messo ad aiutare lo zio mettendo a disposizione le mia forza ed il mio peso. Ad un certo punto, mentre vedevo scorrere nella tinozza il succo dolce e color rubino delle uve spremute, mi viene in mente di fare un esperimento: una bella IGA con il negroamaro che stavamo lavorando! Se ancora qualcuno di voi non lo sapesse, lo stile IGA (Italian Grape Ale) è uno stile birrario recente (inserito nel BJCP nel 2015) ed è l'unico stile autoctono italiano. Ora, la caratteristica comune è che nella birra ci sia del mosto d'uva, tuttavia non è specificato in che modo usarlo per lasciar spazio alla fantasia dei birrai: può essere usato in bollitura, può essere usato come sapa (mosto di vino bollito fino a condensarlo) oppure aggiunto (con o senza previa bollitura per sterilizzarlo) durante la fermentazione.

Mi ricordo dunqe di avere un mezzo chilo di estratto di malto che comprai per fare uno starter e immediatamente butto giù 3,5 litri di birra base in E+G amaricandola con il resto di East Kent Golding che mi era avanzato dalla cotta del mattino. Nel frattempo recupero 1,5 litri di mosto di vino. E qui viene il dubbio fondamentale: come e quando lo aggiungo? Un pò per mancanza di lievito a disposizione (sarei dovuto tornare a casa a prenderlo), un pò per stanchezza dopo una giornata intera di fatica, ho optato per la scelta più facile ma anche più rischiosa: poiché il mosto era già in fermentazione con le bucce da 4 giorni (per la presa di colore) e quindi era già pieno di lieviti buoni attivi, l'ho mescolato direttamente nel fermentatore con il mosto della birra!!

La fermentazione è partita a razzo ed è andata spedita; ne seguivo l'evoluzione dato che avevo scelto di lavorare in una dama di vetro; il colore e il profumo mi facevano sognare... Al momento del travaso ho spostato in un fermentino con il rubinetto e poi ho dovuto abbandonare il tutto per partire a Peschici e iniziare l'anno scolastico, sperando che nella settimana prima di imbottigliare non prendesse il sopravvento qualche lievito selvaggio o qualche batterio indesiderato. Per fortuna è andato quasi tutto liscio e finalmente sono pronto per assaggiare questo esperimento!

Già allo stappo si liberano dalla bottiglia degli intensi profumi di frutti rossi; nel bicchiere appare di un colore a cavallo tra amarena e melograno con una schiuma persistente bianca, appena rosata. Al gusto la sensazione è molto particolare: sembra quasi di assaporare uno spumante ma con il luppolo che, ancora un po' timido, ti ricorda che in realtà è una birra; la frizzantezza poi lascia lo spazio alle tipiche note vinose con un retrogusto leggermente più dolce che ricorda il ribes. Forse avrei preferito un po' di corposità in più per richiamare quella tipica del negroamaro però nel complesso il risultato è molto buono e in questa versione ricorda molto uno spumantino leggero da bere come aperitivo.

In molti mi chiedono il significato del nome scelto per l'etichetta (Xatò), alcuni ipotizzano sia uno scimmiottare lo "Chateau qualcosa" di molti vini francesi, in realtà la verità la sappiamo solo in due...




lunedì 18 maggio 2020

Drinking down-under, storia di una birra all'australiana

Birra e ostriche ad Elisabeth Quay
Ogni volta sempre il solito dilemma: "cosa facciamo a capodanno?". Ecco, per questa volta almeno il "dove" era ben chiaro nella mia mente: non solo volevo tornare ad essere tra i primi a festeggiare l'arrivo del nuovo anno ma volevo anche tornare a farlo in piena estate! Non ci vuole molto a capire (se avete letto il titolo, ancora meno) che ho voluto finire il 2019 ed iniziare il 2020 in Australia.

Per la precisione la meta finale è stata Perth, la capitale dell'Australia Occidentale, affacciata sull'Oceano Indiano e costantemente sferzata da una brezza che ci ha creduto a volte troppo.
Ero già stato tra i canguri un paio di anni prima ma sulla costa opposta e ci sono tornato intenzionato ad assaggiare, anche questa volta, quante più birre possibile. Questo lavoro infatti non è difficile e se poi si pensa che le birre australiane sono buone tutte, anche quelle con pessima reputazione, allora bere è un piacere che non puoi proprio negarti.

Cena fugace con granchi fritti
e ostriche ad Hillarys Harbour
Al mio ritorno in Italia, preso dalla nostalgia del viaggiatore, mi sono messo a studiare una ricettina per ricreare una birra che mi facesse tornare con la mente in riva al fiume Swan mentre mi sfondo di ostriche immerso in una pinta luppolosa. Ecco, il luppolo... È qui che mi sarei giocato tutto! Non volevo infatti fare la classica ale che oramai si trova in tutte le salse. Nella mia mente si era infilata l'idea di replicare una delle pils bevute sul lungomare di Scarborough: a quanto ho potuto assaggiare, la maggiorparte delle craftbrewery e dei brewpub della zona sta vivendo un'importante fase "a bassa fermentazione" con prodotti sorprendenti dal punto di vista organolettico e abbastanza distanti dalle lager monocorde a cui siamo abituati qui in Europa. Inoltre molte di queste birre sono luppolate con varietà autoctone che conferiscono aromi molto particolari e delicati nonostante i lunghi tempi di produzione (tra fermentazione e lagerizzazione ci vuole almeno il doppio del tempo rispetto una birra ad alta fermentazione): la mia sfida era proprio questa, ritrovare i profumi intensi di luppolo dopo tanto tempo senza rimpiangere l'effetto del dry hopping tipico delle APA/IPA.

Degustazione in un brewpub
nel centro di Perth
Il grist è molto semplice, ho fatto un blend di 2 diversi malti pils molto chiari mentre come lievito ho usato il classico Saflager S-23 perché volevo delle belle note fruttate per questa birra. La parte che mi ha portato via più tempo è stata la scelta dei luppoli e tra tutti alla fine ho selezionato il Pacific Gem (fruttato ma poco pungente nonostante l'elevata percentuale di aa, nato da un incrocio di un luppolo californiano da cui ha preso l'amarezza ed un classico inglese da cui ha ereditato la delicatezza) e il Pacifica (molto delicato e dalle note floreali ed agrumate tipiche dell'Hallertauer Mittlefrüh da cui questa varietà è stata ottenuta), due luppoli neozelandesi che però strizzano l'occhio al vecchio continente.

Alla vista questa birra si presenta di colore molto chiaro e paglierino, con una schiuma abbondante, bianca e compatta ma ciò che colpisce di più è la sua limpidezza (i giorni di quarantena forzata causa Covid hanno allungato la lagerizzazione di qualche settimana); al naso abbiamo un'esplosione di aromi su cui spicca la mora (anche se non ricorda i classici "frutti rossi") e il mango (aroma di frutta gialla più l'agrumato, probabilmente l'effetto "composta di arance" del Pacifica); dopo averla assaggiata si percepisce appena un dolce elegante, leggero, che ben accompagna gli aromi fruttati dati anche dagli esteri del lievito e che portano il finale verso il secco con una transizione più sfumata.



Per il nome mi sono fatto ispirare dal Wombat, un pigro marsupiale che vive in oceania e che viene usato come "paragone" per indicare qualcuno che, beatamente, si delizia a mangiare e bere vivendo con calma e spensieratezza. In etichetta, pertanto, l'ho voluto immaginare un po' bogan, una sorta di tamarro australiano, che beve una birra in una delle meravigliose spiagge di cui quest'isola è ricca. Anche questa volta l'etichetta è d'autore e ringrazio il buon Nicola Piracci e la sua mano sapiente ed allenata che ha saputo interpretare il mio pensiero in maniera magistrale.